giovedì 13 dicembre 2012

Di libertà sessuale, di critica e di matrimonio

Rilancio l'articolo del fatto quotidiano, letto attraverso la rassegna stampa zeroviolenzadonne, perché non solo la domanda finale è interessante, cito: "visto che sta parlando di matrimonio, e quindi di legami amorosi, di che tipo di amore si tratta, e quale modello di relazione sta passando alle giovani generazioni?"
Trovo interessante chiedersi anche: visto che stiamo parlando di matrimonio, siamo sempre sicuri che si tratti di amore? Dunque amplio il discorso nel rilancio, e giungo in parte altrove, perché, troppo spesso, mi sembra, ci troviamo davanti al recupero parziale di istanze parziali del femminismo storico, riguardanti la libertà sessuale, intesa come critica alla sessualità maschile, che condiziona il nostro immaginario - anche quando il nostro immaginario è stato scosso da una consapevole autocritica e da pratiche di autodeterminazione, che ci metterebbero a una certa distanza dai condizionamenti del mercato, e che ci hanno portanto a scegliere, consapevolmente, una strada piuttosto che un'altra o un'altra o un'altra (ce ne sono molte, ce ne sono di sessualità per quante sono le persone nel mondo), ma ci si guarda bene dal recuperare quella parte di critica al contratto di matrimonio, alle relazioni monogamiche imposte dal sistema patriarcale come modello economico e sociale, critiche che permettono, oggi, di poter liberare la vita di migliaia di persone, un tempo incastrate in ruoli eterodeterminati.
Insomma, si mette in dubbio la libera scelta delle donne che non vogliono figli, delle donne che abortiscono, delle donne bisessuali, lesbiche, intersessuali, asessuali, di tutte le età e forme - e tutt ciò che si desidera - ma si evita di fare autocritica verso la "libera scelta di contrarre matrimonio". A molti piace dire "buuu" puntando il dito, ma farsi due domande sulle proprie scelte e mettersi davanti a uno specchio meglio di no.
A questo punto vale la pena chiedersi se questo atteggiamento non sia anch'esso uno dei tanti sistemi che il patriarcato ha per ricondurre al focolare domestico il pensiero femmile (che in questo atteggiamento di esclusione e pregiudizio delle altrui pratiche di liberazione, si dimostra più conservatore di quanto crede), o si tratti solo del terrore di dover aderire a modelli sessuali che non si sentono propri - più o meno come quelli che rifiutano gli/le omosessuali perchè pensano che vogliano far diventare gay il mondo! Quest'ultimo dubbio è presto sciolto: nessuna lotta di liberazione sessuale o di liberazione tout court può essere condotta costringendo una parte ad aderire ai desideri dell'altra. La libertà dev'essere totale, completa, assoluta per tutte le vite. Ossia, se non ti piace il fisting nessuno è autorizzato a dirti che lo devi praticare per essere una vera femminista. Capirete che dire: ti piace il fisting perché hai visto troppi film porno, è la stessa cosa. E' molto semplice. L'autodeterminazione di un individuo non può essere misurata a partire esclusivamente dal proprio modo di vivere le relzioni e il desiderio. Se a me non piace una determinata cosa, non alieno tutti quelli che la praticano: altrimenti per cosa sto lottando? Alienare il diverso da me è modalità fascista. Che femminismo è quello che guarda agli altri con disprezzo e gretto moralismo? Quello che si erge a giudice di chi si muove in ambiti diversi dal proprio. Personalmente non riesco nemmeno a chiamarlo femminismo.
Come se io considerassi ogni donna sposata una povera idiota. Vi sembrerebbe un'atteggiamento femminista? Posso muovere critiche produttive al matrimonio, solo ragionando sul sistema ed a partire dal rispetto verso i soggetti che lo scelgono. Questa per me è riflessione femminista.

Il “benevolo sessismo” del matrimonio


Ho messo insieme due stimoli diversi che mi sono arrivati nella stessa giornata, e sui quali credo valga la pena di ragionare. Il primo è un delizioso lavoro di interviste, senza commento, fatte dalla studiosa Alessandra Ghimenti che ha montato le risposte di bambine e bambini di una scuola elementare a domande sul maschile, sul femminile, sui ruoli in famiglia, sulle differenze tra i sessi e quindi sul permanere, (o sul superamento) nell’età degli albori, dei più comuni stereotipi di genere.
Si sorride, si ride e ci si commuove molto, scorrendo il video, sperando fortemente che quegli sguardi aperti, quelle titubanze e quelle certezze limpide evolvano comunque nel segno della disponibilità a soffermarsi a pensare, attitudine che purtroppo spesso non c’è più nell’età adulta.
Come dimostra la seconda sollecitazione, che viene dalla pubblicazione sul Journal of Adolescent Research dei risultati più eclatanti della ricerca effettuata in California dalla psicologa Rachael Robnett, che ha intervistato un campione di studenti e studentesse eterosessuali sul matrimonio e l’equilibrio dei ruoli maschili e femminili al suo interno.
E qui si smette di sorridere: le risposte, raccolte tra il 2004 e quest’anno, raccontano di un 94% di giovani donne che dopo il matrimonio adottano il cognome del marito come proprio, e di un misero 2,8% che sostiene come possibile che la proposta di sposarsi arrivi dalla donna, e non solo dall’uomo.
Il 41% delle donne e il 57% degli uomini ha dichiarato che in una coppia esistono ruoli precisi e che l’equilibrio in questione non va scardinato. Tra le argomentazioni più sconvolgenti a favore della necessità che sia l’uomo a fare la proposta di matrimonio (e non anche la donna), c’è addirittura quella che l’anticipo dalla compagna farebbe sentire meno virile il partner, mentre per alcune donne il primo passo verrebbe sentito come inopportuno.
La cattiva notizia è che le persone intervistate sono giovani, e questo non fa ben sperare.
Anche se il team che ha sviluppato la ricerca indora la pillola coniando ad hoc il concetto (che suona come un inquietante ossimoro) di benevolo sessismo, non sfugge che dietro alla logica ‘romantica’ della permanenza di stereotipi cavallereschi e tradizionali si annida una concezione del femminile come genere che va protetto, debole e dipendente.
Quale che siano le opinioni in merito il risvolto culturale e sociale è preciso: se una donna dopo sposata non mantiene il suo cognome, e quindi non passa anche il suo alla prole, sparisce come identità singola e personale.
Nessuna delle persone intervistate accenna al fatto che i coniugi potrebbero dare entrambi i cognomi alle figlie e ai figli, figuriamoci.
Il 19 % degli uomini e il 22 % delle donne intervistate ha ammesso di non avere preferenze particolari relativamente al fatto di cambiare o meno cognome dopo il matrimonio, ma tre uomini su cinque preferirebbero tenersi il proprio e tre donne su cinque cambiarlo. Chi vuol tenersi il proprio lo fa perché spera di mantenere intatta così la propria identità ma anche questo baluardo frana, per le donne, se di mezzo ci sono i figli e il 36% degli uomini è determinato a trasmettere il cognome alla progenie in nome del rispetto della tradizione. Per il 31% delle intervistate prendere il nome del marito è simbolo di unità e devozione e per il 28% un fatto legato ai rapporti di genere, e in questa ultima affermazione c’è molto su cui riflettere.
Con la classica pragmaticità nordamericana la ricerca spiega che “non è detto, che appoggiarsi a questi stereotipi faccia male al rapporto. Secondo uno studio dell’università americana di Buffalo la chiave di un’unione felice sta nell’idealizzazione del partner. Su oltre 190 coppie di sposi prese ad esame è infatti emerso che una visione del marito o della moglie troppo realistica e paritaria può rappresentare un elemento negativo che porta a dar peso maggiore ai problemi di coppia, con conseguenze spesso disastrose”.
Come dire: i rapporti di coppia reggono solo se non si tengono gli occhi ben aperti, e soprattutto reggono se le donne fanno un passo indietro rispetto alla loro autonomia.
Urge una domanda; visto che sta parlando di matrimonio, e quindi di legami amorosi, di che tipo di amore si tratta, e quale modello di relazione sta passando alle giovani generazioni?

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